Lunedì 9 novembre 2023, si è tenuto il webinar gratuito “Coreografie e drammaturgie della realtà“, a cura di Alessandro Pontremoli, professore di Storia della danza e della performance e di Studi di Danza presso l’Università di Torino, e coordinatore del Curriculum Spettacolo e Musica del dottorato di ricerca in Lettere.

Il webinar, riservato a 50 persone, è stato organizzato da Anghiari Dance Hub e Movimento Danza, insieme al webinar “Curatela e drammaturgia”, svolto martedì 31 ottobre 2023 con Piersandra Di Matteo, direttrice artistica di Short Theatre, dramaturg e studiosa di arti performative (Università IUAV).

Sono stati due contributi preziosi per esplorare il campo della drammaturgia della danza, disciplina innovativa in Italia ma che sta generando sempre più interesse tra studiosi e artisti.

Di seguito proponiamo la trascrizione del webinar tenuto da Alessandro Pontremoli che così lo introduce:

Le più recenti fenomenologie della coreografia e della performance mettono in evidenza un’istanza profonda della contemporaneità: quella di comprendere il reale con tutte le sue sfide e le sue (a volte) preoccupanti trasformazioni. L’intervento intende dar conto di queste strategie di azione artistica a partire da una concezione che considera la coreografia e la drammaturgia come prassi del progetto e tecnologie corporee dell’agire politico.

Coreografie e drammaturgie della realtà

webinar con Alessandro Pontremoli
trascrizione

Il mio intervento di oggi è così suddiviso. Una prima parte riguarda alcuni fondamenti della drammaturgia della danza, così come li siamo venuti elaborando nel tempo. Uso la prima persona plurale perché, negli ultimi anni, molti studiosi si sono occupati di drammaturgia della danza, sia dal punto di vista storico sia dal punto di vista teorico, ma soprattutto dal punto di vista dell’intervento drammaturgico nei contesti produttivi (quindi davvero all’interno della danza del presente, che vediamo, non solo sui palcoscenici ma anche in spazi alternativi). Si tratta di alcuni concetti fondamentali che sono importanti da ribadire.

Nella seconda parte dell’intervento affronteremo l’analisi di qualche spettacolo storico, per poter vedere all’opera tale dimensione teorico-storica e operativa della drammaturgia della danza.Come avete visto il titolo della mia relazione contiene i termini “coreografie e drammaturgie”, perché oggi non si può pensare alla drammaturgia della danza senza ripensare al concetto di coreografia. Andremo pertanto nella direzione di coniugare i due dominî all’interno del nostro discorso.

La questione fondamentale della drammaturgia è legata alla parola senso. Se questo è vero, che cos’è dunque la drammaturgia? La drammaturgia della danza è qualcosa che ha a che fare con il senso.Che cos’è il senso?Il senso non è ovviamente il significato, il senso è qualcosa di estremamente più ampio, che ha a che fare con la specie umana. La richiesta di senso coincide con l’aspirazione della specie umana a una compiutezza di sé, di ciò che vede, di ciò che incontra, di ciò che compie. L’aspirazione al compimento di ciò che accade nell’esistenza. Tutto questo è stato spiegato dalla psicologia della percezione e dagli studi neuroscientifici, che sigillano oggi il nostro sapere drammaturgico in dimostrazioni che illustrano come“funziona” la specie umana.

Prima di questo cambio di paradigma epistemologico, il senso è stato concepito, nel corso del tempo, in termini metafisici, come se il senso risiedesse in una zona esterna alla persona, come se il senso vivesse in un iperuranio. Quello che siamo andati maturando soprattutto nel corso Novecento è che il senso ha una topografia specifica, ha un luogo in cui risiede, e questo luogo è il corpo.

Il senso è nel corpo e nelle relazioni che il corpo stabilisce con il tutto, e questo senso si esplicita in un sistema integrato che comprende anche l’ambiente in cui il corpo è situato.

Noi non possiamo separare la nostra corporeità dall’ambiente in cui questa corporeità si pone, vive e si relaziona. Ormai tutti gli studi più recenti vanno in questa direzione: il senso si comprende unicamente se la specie umana è collocata dentro un sistema che ha cervello, percezione, corpo e ambiente interspecie come elementi costitutivi.Alterare o trascurare uno di questi elementi significa mettere la specie a rischio di estinzione.

Se il senso risiedesse in un fuori, la realtà perderebbe di interesse e non ce ne occuperemmo: questo è ciò che per molto tempo ha fatto l’arte. Vissuta nell’iperuranio, non si è occupata della realtà.Oggi, invece, l’arte torna a dialogare con la realtà, con l’ambiente; torna a interessarsi delle relazioni, della specie umana e delle altre specie viventi, ed è, così, diventata “politica”. Non è più qualcosa che sta in un altrove, ma è qualcosa che vuole cambiare il mondo, vuole cambiare le condizioni in cui la specie umana si trova in questo momento.

Date queste premesse, toniamo a domandarci: cos’è la drammaturgia se non una tecnologia del senso?

Definisco, pertanto, la drammaturgia una tecnologia del senso, che si vale di altre tecnologie. Nella danza la tecnologia di riferimento è la coreografia.Il concetto di drammaturgia è oggi applicato a fenomenologie anche distantissime dall’arte, per esempio all’organizzazione aziendale. I sociologi, in particolare (fra i primi Ervin Goffman), si sono appropriati da lungo tempo del concetto di drammaturgia, soprattutto quando studiano le relazioni fra gruppi, le relazioni fra soggetti, comeper esempio i rapporti fra chi lavora in un’istituzione e il pubblico.Questo tipo di interazioni sociali è studiato dalla microsociologia, che utilizza strumenti drammaturgici per spiegare come funzionano tali relazioni.

Voglio, inoltre, porre una distinzione fra l’aggettivo drammatico e l’aggettivo drammaturgico: la drammaturgia è qualcosa di molto più ampio di ciò che è drammatico, tant’è vero che Hans-Thies Lehmann ha scritto un famoso libro, Il teatro post-drammatico, per dar conto di un teatro che va verso una drammaturgia che non ha più nulla a che fare con la dimensione drammatica.

Un altro testo che vi consiglio di leggere è L’estetica del performativo di Erika Fischer Lichte, che è stato tradotto solo di recente. Anche se si tratta di un testo abbastanza datato,oggi è ancora efficace da punto di vista teorico.

Che cosa distingue allora drammatico da drammaturgico?

Drammatica è la forma che viene impressa a un soggetto narrativo quando viene trasformato in azioni sulla scena.

Quando trasformiamo una narrazione in un’azione presente, quando si trasforma una narrazione (affidata a un testo o ancora solo immaginata nella mente di un autore) in azioni agite, in parole pronunciate in un contesto scenico, si produce una testualità drammatica.

Se la narrazione è al passato, il dramma è al presente e in questo contesto la scena diventa il senso delle parole pronunciate: dire «qui», dire «oggi» ecc. sulla scena produce un ancoraggio di senso in relazione alla situazione drammatica presente. Per tale motivo si dice che la scena drammatica è «deittica», costruita cioè su avverbi che hanno senso solo sulla scena e non sulla carta.

La drammaturgia è la tecnologia che sovrintende alla creazione della testualità drammatica: avendo a che fare col senso è decisamente molto più ampia nelle sue applicazioni.

Voglio richiamare ancora tre concetti che sono importanti:logica delle azioni, scrittura e archiscrittura, gesto musicale. Sono concetti che sono emersi abbastanza di recente negli studi, soprattutto quello di gesto musicale, che è legato a una disciplina relativamente nuova in Italia: la coreomusicologia, un ambito di studi che indaga attentamente il rapporto fra la musica e la coreografia considerati come un unico oggetto di osservazione unitaria.

Logica delle azioni:riguarda il funzionamento della tecnologia drammaturgica e non la dimensione drammatica (che è, invece, la costruzione di testi secondo leggi drammaturgiche). Come abbiamo visto, la drammaturgia è una tecnologia che si occupa del senso attraverso le azioni, attraverso l’agire, e la danza è un agire corporeo. Esiste una dialettica fra grandi azioni e piccole azioni. Per fare un esempio,che possa spiegare questa dialettica, prendiamo un classico del teatrodanza che è Cafè Müller di Pina Bausch. Cafè Müllerdi Pina Bausch si basa su una macro-azione, che è l’azione della memoria di un personaggio specifico:alle origini di questo capolavoro la stessa Bausch. Si tratta di un personaggio fondamentale dentro la pièce:una donna che non vede, o meglio che non vuole vedere, chiude gli occhi e si muove a tentoni nello spazio, per recuperare elementi della memoria attraverso la sua corporeità e il suo gesto.

Questa è la macro-azione di Cafè Müller: tutto il lavoro si basa sull’idea del ricordo, della memoria, del fare memoria e del rievocare, nella propria corporeità e nella propria immaginazione, quella memoria. Le micro-azioni che sostanziano questa macro-azione sono tutte quelle che vengono realizzate sulla scena dai performer:una delle più importantie indimenticabili è quella dell’abbraccio di Dominique Mercy e Malou Airaudo,che richiama figurativamente l’immagine della pietà. La micro-azione complessa viene ripetuta ossessivamente, accelerata e resa sempre più violenta. Questa micro-azione, che ci parla della relazione fra maschile e femminile, è una delle più significative nel sostanziare la macro-azione della memoria.

Mi piace mettere in relazione la logica delle azioni con la teoria drammaturgica di Marianne Van Kerkhoven,una delle più grandi dramaturgdi danza del mondo. Van Kerkhoven non è stata solo dramaturg di coreografi importanti, come Anne Teresa De Keersmaeker, ma ha anche scritto moltissimo sul proprio operato e sulla teoria della drammaturgia della danza. Io ho trovato complementarità fra lamia dialettica fra macro- e micro-azioni, di cui vi ho parlato, e la sua teoria delle Micro and Macro Dramaturgies in Dance. Nel caso di Van Kerkhovenil macro è il riferimento di senso inevitabile di ogni lavoro artistico con i significati emergenti all’interno delle società e delle culture in cui si colloca un’opera danzata; il micro è invece il singolo lavoro coreografico.

Per Van Kerkhovennon può esistere una micro-drammaturgia coreografica separata da quello che accade nel mondo, dai problemi della società, della specie umana e dell’ambiente. L’arte o ha a che fare con il tutto, o è totalmente oggi inutile, non serve a nessuno, nemmeno ai danzatori, nemmeno ai coreografi. Ogni micro-drammaturgia coreografica si riconnette poi, nel suo farsi e nel suo mettersi in forma, alla dialettica fra grandi e piccole azioni.

Veniamo al concetto di scrittura. Come si diceva, la tradizione filosofica e linguistica ha posto il senso all’esterno del mondo, come se ci fosse un dio-senso e tutto ciò che noi produciamo (i testi, la danza, la drammaturgia, la poesia, la pittura, le sedie, i vestiti) non potesse essere spiegata se non in riferimento a questo universo di senso. Come è noto, Derrida, dal punto di vista epistemologico, ha rivoltato come un calzino questa visione: nel momento in cui noi diamo spazio a una tecnologia come la scrittura, non siamo più in grado di dominare il senso di quella scrittura. Il senso non sta più né in noi, né in questo cerchio magico del senso, ma sta dentro quella scrittura e produce senso indipendentemente dall’autore e dal fruitore. Questa è una rivoluzione molto importante, una rivoluzione del pensiero, ed è ciò che permette alla danza di essere oggi estremamente politica in virtù di un radicale ritorno al corpo. La produzione discorsiva non è qualcosa che sta solo sulla carta, è qualcosa che modifica i comportamenti, che agisce sui corpi.La parola“cane” morde, ci morde la carne, ci trasforma. I discorsi di potere creano i corpi, li determinano nei loro comportamenti, nella loro forma. La danza, invece, può andare contro le costruzioni discorsive che impongono al corpo di essere in un certo modo (ad esempio un corpo patriarcale, bianco, eterosessuale). La danza può mettere in crisi drammaturgicamente tutto questo, perché è in grado di creare una scrittura alternativa che produce nuovi discorsi, e di conseguenza anche una nuova visione del mondo. Una alternativa e differente scrittura drammaturgica del corpo è in grado di rimettere in discussione una visione della realtà e del corpo stesso, che i discorsi della medicina, della moda, del potere, vogliono “sano, bianco, eterosessuale”, ecc.Tutti i discorsi predominanti possono essere messi in crisi da quella tecnologia che è la drammaturgia, una archi-scrittura corporea che dà vita a un nuovo discorso.

Esempi di lavori coreografici.

Analizziamo il primo lavoro: una della prime opere di Alessandro Sciarronisi intitolaYour Girl ed è una performance con Chiara Bersani e col uno dei danzatori“feticcio”di Sciarroni, Matteo Ramponi.

Una sintesi del lavoro è disponibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=bfS6Ok3Fcp8 (video soggetto a limiti di età)

Questo lavoro con Chiara Bersani, che è una performer con corpo non-conforme, vede in scena due personaggi che sembrano relazionarsi in una dimensione affettiva, ma ciascuno di loro, come emerge da alcune battute che vengono pronunciate durante la performance, ha un riferimento affettivo diverso.Per Ramponi si tratta evidentemente di un “lui”, come emerge dalla battuta «I love him»,pronunciata prima di spogliarsi completamente nudo; per la Bersani è un riferimento femminile, evidenziato dalla battuta: «She loves me».

La macro-azione del pezzo di Sciarroni è dunque quella dell’eros, qui rappresentato da un vissuto di omosessualità, posto, però, solo come punta dell’iceberg del tema della differenza e dell’accettazione di corpi, di sessualità, di identità ecc., tutti non-conformi, ma ugualmente posti come legittimi e degni di un portato affettivo condiviso e comune.

Questo lavoro si sviluppa in micro-azioni: lo spogliarsi progressivo, prima di lei, poi di lui; far inghiottire gli abiti da un’aspirapolvere onnivoro; o stendere i corpi nudi di fronte al pubblico in una costruzione di immagine pittorica ancestrale: l’archetipo biblico di Adamo ed Evanel giardino dell’Eden. Il confronto fra le due corporeità, quella da statua greca di Ramponi e quella non-conforme di Bersani, fa riflettere sulla follia di un mondo costruito su dualità oppositive e su identità sessuali binarie, mentre richiama alla bellezza della diversità.

Torna alla memoria uno spettacolo come Quore[sic] di Raffaella Giordano, un lavoro del 1999 di grande intensità, una performance che alle soglie del nuovo millennio si pone come uno spartiacque nella storia della danza contemporanea italiana. Anche Giordano utilizza quest’immagine edenica con il nudo di Doriana Crema e Aldo Rendina, che per mano saltellano avanti e indietro sul palco come due bambini felici e innocenti. I corpi non conformi dei due danzatori, con caratteristiche opposte a quelle che ci si aspetterebbe di vedere sulla scena della danza (magro e trascurato lui; piuttosto in carne lei)sono analoghi a quelli di Bersani e Ramponi e richiamano lo stesso orizzonte drammaturgico di accettazione e condivisione affettiva.

Al tempo, la critica, aderendo forse non del tutto consapevolmente a una visione conservatrice e di potere, parlò di danza della cellulite, anni prima che una coreografa di recente successo come Silvia Gribaudi facesse di quella la danza della cellulite la sua cifra stilistica. Il potere, quando reagisce, incide sulla carne delle persone:parlare in modo sarcastico e irriverente di danza della cellulite significa richiamare prepotentemente a un modello corporeo imperante, che il potere ha già stabilito come debba essere e come debba presentarsi. Quei lavori hanno colpito il potere, hanno procurato una ferita, come dimostra la piccata e aristocratica reazione della critica.

Ricapitolando: la logica delle grandi azioni di questo lavoro di Alessandro Sciarroni coincide con la dinamica dell’amore, qualcosa che non ha colore, non ha età, non ha proporzioni greche del corpo, non ha dimensione binaria imposta. La logica delle micro-azioni è quella dell’esposizione progressiva del corpo: spogliarsi significa togliersi un pezzo di civiltà, significa offrirsi come nuda vita rivestita di forma propria, di desideri propri e non imposti.Il vestito, come diceva Pasolini, è la nostra impossibilità di non cadere nella trappola del capitalismo. Fintanto che noi compriamo un abito e lo indossiamo, possiamo essere anticapitalisti finché vogliamo, ma quell’acquisto è connivente col mercato. Pasolini, in anni non sospetti, proponeva di fare comunque i conti con questo condizionamento, perché è sempre possibile rimanere anticapitalisti anche se indossiamo un abito. Sul versante opposto c’è il paradosso di San Francesco, che rifiuta il potere del padre spogliandosi completamente nudo in piazza davanti a tutti, per dire al padre stesso:«Tu non hai più alcun potere su di me e io scelgo la mia strada; ti restituisco ogni cosa che ti appartiene e scelgo di condividere tutto perché inappropriabile».

Questo procedere drammaturgico è molto inscritto nella nostra cultura occidentale e quando creiamo un discorso alternativo – e soprattutto lo facciamo con la forza del corpo che lo produce – è necessario comunque stare entro codici che permettano a chi assiste alla rappresentazione di entrare in relazione col senso della rappresentazione stessa o della sua presentazione.

Abbiamo affrontato la dimensione delle logiche e abbiamo affrontato la dimensione della scrittura: il corpo scrive; la drammaturgia si vale di una scrittura e la sua scrittura è la coreografia.Ma la coreografia è una scrittura, non è una lingua. È diverso parlare di scrittura e di lingua.

La scrittura è qualcosa che prescinde totalmente dalle lingue, perché noi siamo in grado di riconoscere qualcosa come scrittura pur non possedendo i codici di quella scrittura. La riconosciamo come tale e, in quanto scrittura, entra comunque in relazione con noi. La danza è un geroglifico, è una scrittura.Come geroglifico richiede quindi una partecipazione che va al di là della logica della lingua, della logica dei codici, va molto in profondità, cioè va alle radici della specie.Quello che accade quando noi vediamo una coreografia va nella direzione di una percezione complessa, estremamente complessa, che solo in un secondo momento può anche diventare capacità di traduzione in discorso:si tratta di una conoscenza fisica di quello a cui stiamo partecipando. La coreografia e la drammaturgia della danza richiedono estrema attenzione da parte del pubblico, perché se si vuole cambiare il mondo si deve fare in modo che la costruzione del senso sia rigorosa dentro la sua logica.

Non possiamo pretendere che logiche esterne vengano a inficiare la costruzione del senso, se noi non lo vogliamo. È importantissimo, pertanto, avere una figura di sguardo esterno al lavoro performativo. Credo che non ci sia più alcun coreografo che non capisca l’importanza di dotarsi di un dramaturg. È oggi necessario essere in più soggetti per confezionare qualcosa che al di là dell’idea di forma vada nella direzione di entrare in contatto con l’altro, cui permettere di “prendere con”, non necessariamente di “capire”, ma certamente di “prendere”, portare a sé, in una parola di “com-prendere”.

Dobbiamo ricordare che ogni scrittura, una volta che è uscita da noi ed è entrata nel mondo, diventa qualcosa che non possiamo più dominare.

Parliamo ora del gesto musicale: è un concetto che mette insieme danza, performance, agire del corpo azione e dimensione musicale. Qui dobbiamo fare i conti con il nostro signor Cunningham, che è un grande personaggio. Non si può fare i conti senza di lui, che inevitabilmente rappresenta uno spartiacque. Il signor Cunningham a un certo punto ha detto «basta»: la musica e la danza vanno in direzioni diverse, sono due linguaggi separati; possiamo fare danza senza essere schiavi della musica, possiamo fare musica senza essere schiavi della danza. Questa operazione va letta in un contesto storico preciso. Cunningham lavora, insieme a Cage, alla comprensione di che cosa sia la complessità del presente, del contemporaneo a partire dalla fine degli anni Quaranta del Novecento. Fa affermazioni di principio come quelle sopra esposte per rompere con le convenzioni, con la tradizione.Deve andare in una nuova direzione per dimostrare che le scritture hanno tutte la loro autonomia.Ma in realtà noi non separiamo mai musica e danza, perché la musica è una emanazione corporea. È un processo corporeo, che solo in seconda battuta è affidato a tecnologie esterne, a protesi che producano suono al di fuori di noi: gli strumenti musicali.

Il nostro corpo produce sempre suono: addirittura quando parliamo noi produciamo suono, costruiamo costantemente una dimensione che è sonora, che contribuisce in modo sostanziale alla produzione del senso.Le parole producono senso soprattutto in relazione a come vengono dette e la stessa parola può significare il suo opposto se è pronunciata diversamente.

Il concetto di gesto musicale torna a mettere insieme musica e danza e ha molto a che fare con la drammaturgia. Prendiamo le Variazioni Goldberg del nostro grande beneamato Bach. La composizione musicale, che solo in parte ha riferimenti espliciti alla danza, è comunque costruita su gesti musicali e tale gestualità musicale spinge coreografi ad affrontare le Variazioni in termini di coreografia e drammaturgia.

Vediamo il rapporto fra gesto musicale e drammaturgia della improvvisazione.

Facciamo questa riflessione a partire dalle improvvisazioni che Steve Paxton ha portato in tournée per molti anni e da quelle di Virgilio Sieni.

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Paxton propone la sua performance negli anni Novanta e ne ricava due riprese cinematografiche. Utilizza, come supporto musicale, le due incisioni che Glenn Gould realizza rispettivamente nel 1955, a ventitré anni, e nel 1981, un anno prima della morte che avviene all’età di soli cinquant’anni. Le due esecuzioni sono molto diverse fra loro: quella giovanile è virtuosistica e rivela il talento eccezionale del giovane pianista canadese; quella della “maturità” è invece meditata e con tempi più gravi. Paxton utilizza le prime 15 variazioni dell’incisione tardiva del 1981 nella prima parte del suo lavoro, e le seconde variazioni dell’incisione del 1955, quelle più brillanti e veloci, nella seconda parte. Paxton giustifica questa scelta con la necessità di una ricarica di energia verso la fine della sua performance, che gli proveniva dalla gagliardì a dell’incisione giovanile di Gould.

Nella performance Paxton è truccato con una maschera d’argilla, che si deteriora durante l’esecuzione perdendo progressivamente consistenza e sbriciolandosi. Tale soluzione drammaturgica è una delle macro-azioni di questo lavoro di Paxton: portando in scena il suo corpo di uomo maturo, quasi anziano, anche se scattante, atletico e prestante, ci invita a riflettere sullo scorrere inevitabile del tempo e sul processo di disgregazione che ne consegue. La seconda macro-azione del pezzo porta in primo piano la questione della memoria del corpo: improvvisare significa fare i conti costantemente con la memoria, con i processi tecnici incorporati che riaffiorano e vengono costantemente deviati per evitare la ripetizione e lo stereotipo. Le micro-azioni che si dispiegano senza sosta nell’esecuzione di Paxton sono di natura metalinguistica e incentrate sul principio della rotazione del corpo indagata in tutte le sue possibilità spazio-temporali: dall’accumulo di energia nella verticalità del corpo allo scaricare la tensione della seconda parte in cui prevale il floorwork.

Entrando più in profondità di questo lavoro di Paxton, comprendiamo che, dal punto di visto della costruzione del senso, il grande coreografo americano ci parla di quello che oggi gli studiosi definiscono neotenia, vale a dire della capacità del nostro sistema cervello-percezione-ambiente di essere “plastico” fino all’ultimo giorno della vita. Perché ciò accada la corporeità deve danzare: è un dato ormai scientificamente acquisito che se noi danziamo e continuiamo a danzare nel corso della nostra vita abbiamo per le mani uno strumento che ci permette di affrontare costantemente i cambiamenti del mondo.

Paxton, che per tutta la sua esistenza si è occupato di benessere del soggetto attraverso la proposta della contact improvisation, ci invita a riflettere, già negli anni Noventa, quando ancora non se ne parlava, sulla possibilità di guadagnare soft skills attraverso la danza.

Un altro grande coreografo che ha affrontato le Variazioni Goldbrg di Bach è Virgilio Sieni, che pure lavora sulla fondamentale importanza della memoria per la vita delle persone.

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Col lavoro di Sieni siamo su un altro pianeta, ma siamo comunque sempre dentro alla stessa medesima concezione del gesto musicale. Virgilio Sieni esegue le Variazioni, in forma di improvvisazione, da molti anni, introducendo – con l’evidente cambiamento della sua corporeità nello scorrere del tempo – una riflessione sull’invecchiamento attivo.

Questo è un lavoro che Sieni ha arricchito di elementi drammaturgici, che consistono nei riferimenti all’arte figurativa rinascimentale e barocca. Ogni variazione è riferita a un quadro o a un affresco fra Quattro e Seicento e si sviluppa a partire dalla memoria della sua immagine incorporata. Ogni variazione è un saggio critico e allo stesso tempo una presentazione fisica, mai didascalica, della figurazione di volta in volta evocata.

Gli elementi della incorporazione visuale, anche quando sono i gesti precisi del quadro o dell’affresco, vengono elaborati sempre in modo originale dentro la scrittura coreografica, amplificati, ripetuti, connessi con la memoria di altri gesti, con coreografie già sperimentate, secondo una consapevole drammaturgia dell’improvvisazione.

La drammaturgia dell’improvvisazione coreografica è oggi molto frequentata in ambito creativo, perché mette in gioco in tutte le capacità del corpo della specie umana. Come è noto da studi recenti, il corpo, nel movimento, è sempre in anticipo su sé stesso e contemporaneamente in ritardo.

L’improvvisazione si pone nel mezzo delle due azioni di anticipazione e ritenzione, cioè fra la capacità del cervello di prevedere il movimento, di sapere come esso andrà a finire e l’imprevedibilità del fallimento del movimento stesso a causa di un errore o distrazione percettiva (quando i muscoli gravitari sono ingaggiati, essendo essi involontari, risulta difficile essere certi dell’esito finale del movimento). L’improvvisazione sta nel mezzo, è un intervento volontario dentro la dimensione involontaria del movimento: è una costruzione costante del pensiero corporeo in azione.

L’improvvisazione (nella danza, nella musica, nella performance)risulta pertanto un paradigma dell’esistenza. Anche nella vita quotidiana noi improvvisiamo costantemente, mettiamo in gioco percezione, riflessione, cervello e ambiente; è così che viviamo; è così che la specie umana si relaziona al tutto.La danza, dentro una drammaturgia dell’improvvisazione, può diventare in tal modo uno strumento per aiutare le persone a recuperare delle prassi che non avrebbero mai immaginato di poter mettere in atto nella propria quotidianità. Ed è per questo che non c’è separatezza fra prassi quotidiana e arte.

L’arte e la danza sono una rielaborazione paradigmatica di prassi del quotidiano che da lì vengono, ma lì devono ritornare, perché altrimenti la danza è autistica.Credo che oggi non si abbia più voglia e bisogno di una danza autistica.

Spero di essere stato nei tempi.Vi ringrazio per l’attenzione.

Alessandro Pontremoli